Il libro aperto e l’Evangelista Marco

Non è il caso di spendere molte parole in favore o contro l’inserimento dell’architettura moderna nel tessuto delle nostre città. La questione se il moderno abbia o meno legittimità per convivere con l’antico, quando è posta in termini di diritto non consente di arrivare ad alcuna verità.


Nessuna legge (o ragionamento) ci darà una buona architettura, nessuna legge potrà sostituire il giudizio che la città, essa sola, darà nel tempo. Ciò è ancor più evidente se si scorre quanto è apparso sui giornali in merito al memorial dell’11 settembre di Daniel Libeskind a Padova.
I detrattori e i sostenitori di quest’opera, quando sono partiti da questioni di principio (il moderno si o no, la tutela dell’ambiente, la modificazione dello scenario urbano consolidato ecc.), non hanno chiarito nulla. Per artificio retorico e farisaicamente, molti di loro hanno dichiarato di non voler dare giudizi estetici, salvo poi chiudere i loro interventi parlando di mostri, di colate di cemento o, sul versante opposto, di diritto al progresso, all’espressione del moderno ecc. Il modo di argomentare di queste anime belle è ben noto e sarà opportuno prenderne le distanze.
Molto semplicemente, la “questione Libeskind” attiene il fatto che le nostre città meritano un’attenzione vigile al fine di salvaguardare la loro preziosa identità ma, com’è noto, l’identità non è un fatto statico bensì in continua trasformazione nel tempo. Precisi tratti distintivi ci permettono di riconoscere una donna anziana nella sua vecchia immagine di adolescente; pur diversa dal suo volto di quindicenne, se nel trascorrere dei lustri essa non ha tradito la sua natura individuale, la città sarà ben riconoscibile anche nel suo aspetto contemporaneo, vitale e civile.
La questione che attiene l’identità di un luogo non è né di forme né di stili, sarebbe troppo semplice; per dialogare con l’antico la nuova architettura deve essere carica di significati, non banale, non sciatta, deve metabolizzare le preesistenze senza piaggerie mimetiche, deve essere consapevole della dignità del sito e del proprio ruolo.

La città viva saprà poi riconoscere e valutare la bontà o meno delle nuove integrazioni; le accoglierà o le rifiuterà senza dare troppo peso al parere dei sommeliers della critica d’arte o al terrorismo verbale di chi è favorevole o contrario per questioni di principio.
Per ora non è possibile prevedere quale sarà il giudizio di Padova sul monumento di Libeskind e si può solo ragionare sul messaggio poetico che l’architetto ha inteso affidare al memorial dell’11 settembre.
Dal punto di vista simbolico la scelta del sito posto sulla cinta muraria alle porte Contarine appare particolarmente opportuna: un monumento non deve mai essere collocato dove “sta bene esteticamente” ma là dove esso realizza una particolare sinergia di significati con il luogo. Le mura sono la difesa, il baluardo, l’ultimo limite sul quale una civitas gioca la speranza e la fede nella libertà; le rappresentano la potenza militare ma anche la sapienza costruttiva di una comunità: porta Palio a Verona è un bell’esempio di una città che si offre al forestiero con la sua facciata esterna nobilmente urbana; per contro, il prospetto interno è giocato in stile rustico, con un vigoroso bugnato per ricordare ai veronesi che si stanno avviando verso la campagna.
Libeskind ha scelto come simbolo della civiltà occidentale un libro aperto e lo oppone alla barbarie e all’insensatezza delle nuove ideologie della morte. Alle porte di Padova e sopra le mura il suo grande libro sostituisce ai cannoni e agli eserciti la forza morale della cultura e del dialogo. E’ un libro luminoso che trattiene tra le sue pagine una trave d’acciaio che apparteneva alle Twin Towers.
Forse non era necessario chiedere la legittimazione di questo memoriale ad una reliquia; non c’è ricordo di monumenti che abbiano acquistato maggiore forza evocativa dall’incorporazione di un dito di Colleoni o dell’elmo del Gattamelata; gli antichi erano ben consapevoli che il memento era affidato alla forza espressiva dell’artista; era questa l’unica garanzia che l’opera sarebbe sopravvissuta a loro e che i posteri avrebbero mantenuto vivo il loro desiderio di non dimenticare.
Il libro di Libeskind è aperto a squadro; esso è realizzato in vetro translucido e acciaio, ha dimensioni straordinarie, vi si può entrare, esserne protetti, farne parte; visto dalla città, la sua immagine si arricchisce e cambia a seconda delle diverse angolazioni; le pagine si presentano aperte, parte opache, parte translucide e racchiudono uno spazio di dimensioni monumentali. Dal lato della stazione ferroviaria, nuova porta della città e per tutta la lunghezza del ponte sul Piovego esso si presenta ai “foresti” come un edificio prismatico compatto che offre alla vista il suo diedro tagliente, il dorso poderoso sul quale convergono i due grandi piani verticali.
Per noi veneti il leone di San Marco che si mostra con il libro chiuso senza che vi si possa leggere l’iscrizione “Pax tibi Marce, Evangelista meus” vuol dire che Venezia è in guerra – ma non è certo questo il messaggio che Libeskind vuole trasmettere.
Se l’architetto polacco avesse avuto più tempo e maggiori frequentazioni del Veneto, forse avrebbe accolto nella sua visione non solo il pathos della tragedia dell’11 settembre ma anche la particolare identità dei nostri luoghi che, per tradizione, sono aperti alle civiltà dello straniero.
E’ questo l’unico appunto: dall’ingresso alla città il volume del memorial si presenta chiuso: ciò lo fa leggere come una piccola costruzione high-tech, sorta di grattacielo Pirelli in sedicesimo e lo apparenta agli edifici sullo sfondo, moderni come data di nascita ma già vecchi cin quanto a ideazione architettonica.
Da questo lato, forse il più carico di significati simbolici, l’opera di Libeskind non trasmette il suo messaggio: il desiderio di conquistare la pace grazie al libro, e cioè grazie alla fede nel dialogo tra gli uomini.

Guido Pietropoli
settembre 2005